Gli slacciamo lo zaino e i primi bottoni della camicia.
Mi si stringe la gola.
Nonostante Alberto continui ininterrottamente a far coraggio al povero uomo ci scendono ad entrambi le lacrime. Senza dirci nulla eravamo concordi che la situazione era critica. Ad ogni movimento scivoliamo più in basso avvicinandoci pericolosamente ad un cambio di pendenza del terreno. Chiedo ad Alberto di mettersi al mio fianco, verso la montagna. Proprio in quel momento sento che scivoliamo tra le pietre e riesco a malapena a tenere fermo l'uomo ferito afferrandolo per la giacca.
Nel mentre Giovanna ha già preso contatto con i soccorsi che contano di raggiungerci con l’elicottero della stazione piemontese.
Adriano è rimasto a metà tra noi e Giovanna per mantenere un contatto e poterci scambiare informazioni e richieste.
Nel mentre ci ha raggiunto anche Giorgio C. e Vittorio. Ora siamo in quattro e dobbiamo metterci tutti in sicurezza.
In un istante decidiamo il da farsi, e non abbiamo scelta, le possibilità son solo due: sistemare il ferito e noi stessi o lasciarlo lì e spostarci al sicuro solo noi.
Ci guardiamo negli occhi e rifiutiamo l’idea di abbandonare quella persona a se stessa.
Ci disponiamo sui fianchi dell’uomo, uno a destra uno a sinistra, uno ai piedi e uno alla testa. L’esperienza nel soccorso alpino e le lezioni in sede han fatto si che servissero poche parole per procedere: chi reggeva allineata la testa ha comandato la manovra e con un movimento fluido abbiamo adagiato il ferito in una posizione sicura. Successivamente abbiamo preso il telo termico e l’abbiamo coperto.
I suoi occhi sembravano cercare i nostri e le parole di conforto nascondevano il dolore per quell’uomo che in quei momenti sentivamo essere nostro amico, come se ci conoscessimo da sempre, eravamo tutti sconvolti.
Alberto gli teneva la mano e gli parlava, io Vittorio e Giorgio con gli sguardi, senza dirci parole, ci siamo capiti: non potevamo far altro. Il tempo peggiorava, era comparsa una nebbia fitta e un vento gelido.
Dal fondo valle ci è sembrato di sentire il motore dell’elicottero così ci prepariamo a liberare il luogo e a proteggerci da una possibile caduta dei massi nel momento in cui le pale del mezzo avrebbero creato turbolenza sulla pietraia. Vittorio ed io ci incamminiamo verso Adriano, Giovanna e Giorgio A. , Alberto terrà la mano dell’uomo fino all’ultimo e Giorgio C. farà i segnali all’elicottero.
Pochi minuti prima di essere raggiunti dai soccorsi Alberto tra le lacrime ci comunica che la sofferenza di quell’anima è finita, gli ha tenuto la mano fino all’ultimo momento. Quando arriva l’elicottero nell’esile piazzola c’è solo Giorgio C. , noi siamo oramai tutti dall’altro versante del canale.
L’uomo è morto.
Osserviamo silenziosi il recupero dei soccorritori, senza dire altre parole.
La situazione è surreale, non avrei mai immaginato un evento del genere, lontano da casa, in luoghi che non conosco mi sentivo perso e svuotato da tutte le energie.
La felicità di trovarsi tra amici in una grande montagna era stata spazzata via dalla tragedia.
Prima che si diffondesse la notizia, sapendo che a casa le nostre famiglie erano anch’esse sintonizzate sul Monte Rosa, abbiamo deciso di chiamare e avvisare che stavamo tutti bene pur sapendo che da li in poi questo avrebbe messo tutti in grande angoscia.
Ho chiamato Betty, mia moglie, mi ha risposto allegra. Non so come ho fatto a descrivere quello che era accaduto, cercavo di non farmi sentire particolarmente scosso, non so se ci son riuscito.
Nel mentre siamo stati contattati dalla stazione dei Carabinieri per invitarci a raggiungerli per la deposizione necessaria per ricostruire l’evento. Ci siamo consultati, avevamo ancora voglia di continuare? La salita alla montagna aveva ora un altro significato, aveva perso di entusiasmo e non eravamo più così convinti di cosa era meglio fare. Forse per cercare di assorbire le sensazioni, per pensare altro, per cercare la normalità persa abbiamo convenuto di andare avanti.
Giovanna ha richiamato i militari ed ha spiegato loro che ridiscendere a valle avrebbe segnato la fine del nostro programma, i Carabinieri si son dimostrati comprensivi e hanno rimandato l’incontro alla nostra discesa.
Proseguiamo quindi.
Ognuno ha ripreso il proprio zaino, nessuna parola.
Dall’incidente erano trascorse forse due ore, ci siamo dimenticati delle fatiche della salita e della difficoltà della quota. Avevamo dato tanto in termini fisici e mentalmente eravamo distrutti.
Inutile dire che nel silenzio ognuno di noi cercava di darsi una spiegazione su come poteva essere accaduto, un escursionista da solo in montagna, un sentiero che ci era sembrato semplice e noi li, solo noi.
Quando arriviamo in gran ritardo al rifugio dei 3400 non abbiamo più tempo ne energie per salire ai 3600 e ridiscendere come prevedeva il nostro programma.
La sala è affollatissima, i presenti hanno già mangiato e la notizia dell’incidente si è già diffusa.
Qualcuno ci chiede informazioni ma nessuno di noi ha voglia di parlare, è come riaprire una ferita all’animo non ancora guarita.
Abbandoniamo gli zaini in un corridoio e silenziosi guadagniamo un tavolo nell’angolo della sala. I proprietari ci offrono quello che è rimasto: un minestrone di verdure.
È caldo, va benissimo.
Una volta seduto, dopo aver mangiato, sento che scarico le tensioni e mi rendo conto che non siamo proprio in forma, anche i nostri visi son segnati da quella dura lezione della montagna.
Mi capita di guardare i miei compagni e scoprirli con lo sguardo perso nel vuoto, ognuno dentro se sta cercando il senso degli eventi.
Esco nella balconata esterna, è sera inoltrata, alla luce del sole estivo si può stare con una semplice felpa, quando passa una nuvola in pochi secondi devo correre dentro a prendere la giacca.
In compenso siamo rimasti in quota più del previsto, ci siamo mossi, abbiamo faticato e tutto sommato ci siamo acclimatati.
Prendiamo la piccola camera dove dormiremo in sette e dato che non ci stanno tutti gli zaini lasceremo buona parte delle attrezzature nell’andito.
Non so chi tra noi sia riuscito a dormire, tra la poca aria viziata della camera ed i pensieri in mente, ho trascorso la notte rigirandomi nel sacco letto disturbando certamente anche i miei compagni.
Quando ci alziamo è ancora notte.
Raggiungiamo la sala e facciamo colazione tra una miriade di escursionisti, sicuramente non saremo i soli ad incamminarci verso la vetta. Oltretutto a 3.600 metri, 200 metri sopra di noi, c’è l'altro rifugio, più grande, anch’esso zeppo di escursionisti con la stessa nostra meta.
Non sono abituato a trovare la folla in montagna, non mi piace, ma seguo anch’io il programma e mi dimentico di chi mi circonda.
Quando indossiamo gli imbraghi ed i ramponi, impugniamo la piccozza e ci leghiamo in cordata ci sentiamo nuovamente bene, concentrati sull’obbiettivo.
Il tempo è buono, non c'è vento e non fa tanto freddo per essere ancora in piena notte a 3.200 metri.
Quando ci incamminiamo è buio e il ghiaccio splende alla luce delle nostre lampade frontali.
L’altezza si fa sentire, più saliamo e più è evidente che serve più fiato per muoversi.
Anche i piccoli gesti hanno un peso, sollevare la macchina fotografica per fare una foto è faticoso, fermarsi e ripartire è molto faticoso. Anche bere tre sorsi di integratore dal camel bag è un azione da valutare, nel bere infatti non si respira così ogni volta che devo mandare giù un po’ di liquidi mi ritrovo con la necessità di recuperare il fiatone.
Lo spettacolo dell’alba è magnifico, son senza parole. Quando arriva il sole illumina le montagne, il ghiaccio è di un bianco intenso e il contrasto con il cielo azzurro lo rende ancor più abbagliante. Sento che mi sto innamorando di quei luoghi.
La lunga salita si fa sentire sempre più, le soste aumentano di frequenza per seguire i ritmi della cordata, la fatica c’è, ma sto bene. Fisicamente molto bene, più di quanto avrei mai sperato.
Quando guardo verso il basso vedo un fiume di persone salire, alcuni con gli sci, altri in cordata ma alcuni sono slegati nonostante nella salita si sia reso necessario superare diversi crepacci.
Mi ritorna in mente l'incidente del giorno precedente e non giustifico questa loro superficialità nell'affrontare la salita.
Dopo aver fatto le foto di rito, alle 10.30 del mattino iniziamo la discesa dal Colle Gnifetti a 4.500 metri di quota dove, poco distante, alcuni giorni dopo perderanno la vita degli alpinisti per il distacco di una balconata su una cresta.
Scendiamo veloci, più scendiamo di quota e più riprendiamo fiato.
Non sento più fatica ed ho caldo, mi tolgo la giacca ed il berretto rimediando una scottatura in testa che mi genera un lieve mal di testa.
Al rifugio Mantova ci tratteniamo il tempo necessario per rivestirci e assemblare lo zaino, il tempo si fa brutto e ricomincia leggermente a piovere.
Come promesso, ci incontriamo al Passo dei Salati con i Carabinieri con i quali ricostruiamo l'incidente poi continuiamo la discesa utilizzando gli impianti e la sera siamo a casa.
Prima di partire avevo immaginato una gran bella festa per la nostra impresa ma ora tra la stanchezza della salita e il triste ricordo dell'incidente ci accontentiamo di una pizza ad Alagna.
La notte, nel caldo letto della casa di Giovanna, mi lascio cadere in un sonno pesante, fitto di immagini e ricordi. Mi alzo per la sete, bevo e riprendo sonno immediatamente.
La mattina seguente, a mente riposata, mi rendo conto della dura lezione a cui abbiamo assistito.
Usciamo a fare spesa e organizziamo una grigliata in giardino, nel pomeriggio ci riporteremo all'aeroporto per rientrare in Sardegna.
Ancora oggi mi chiedo cosa possa aver sbagliato quell'uomo, cosa possa essere veramente accaduto per cadere da quel punto.
Ma soprattutto penso che anche noi siamo passati in quella cengia larga un metro, ben più larga e sicura di tanti passaggi fatti in Sardegna.
Dov'è il limite tra la prudenza, il naturale rischio della montagna e l'imprevedibilità degli eventi?
Quando andiamo per le montagne siamo coscienti di cosa mettiamo in gioco o pensiamo sempre che a noi non possa mai capitare un incidente?
Chi utilizza le corde conosce anche le manovre di soccorso? sappiamo tutti portare a terra un compagno?
Personalmente mi son dato delle risposte, ognuno tragga le proprie conclusioni da questa storia.
"La montagna, come un miraggio ci ha attratto, con la morte ci ha colpito duramente
ed alla fine si è concessa in tutto il suo splendore.
Questa è la montagna, spietata e dolce allo stesso tempo.
La montagna non si fa conquistare, è lei che decide se conquistarti o punirti.
La montagna è scuola di vita, sempre!
A Paolo, sconosciuto compagno di viaggio che alla montagna ha donato la vita."
(Vittorio Chessa)