Un incidente in montagna




Son passati mesi dall'avventura sul monte Rosa ma le sensazioni provate son state così forti che sembra di esser ancora lì, immerso in quelle bianche e fredde montagne che in pochi giorni son riuscite a segnarmi profondamente in tutti i sensi. Nel bene e nel male ne ho tratto diversi insegnamenti, che sotto molti punti di vista mi influenzano anche nelle scelte e nel modo di andare in montagna qui in Sardegna. 

Finalmente è arrivato il giorno. Partiamo in quattro da Elmas, con me ci sono Vittorio, Adriano e Giorgio C. del CISSA e nonostante le tante incognite da affrontare siamo estremamente carichi di energie e fiducia. Son mesi che prepariamo mente e fisico a questo evento percorrendo lunghe salite con un ritmo forsennato, portandoci zaini stracarichi di bottiglie d’acqua per simulare il peso che poi avremo sulle spalle quando, si spera, saremo a 4.500 metri di altitudine. Siamo mesi che non parliamo d’altro. Ora fiato, gambe e mente sembrano aver risentito positivamente di quell’allenamento. Mi sento in gran forma. Semmai nutro qualche dubbio sugli effetti dei 4500 metri sul mio organismo, è la prima volta che andrò a quelle quote e ancora non so se soffrirò particolarmente del mal di montagna. Ma i timori maggiori riguardano le previsioni del tempo. Dopo aver trascorso l’ultima settimana collegato a tutti i possibili portali meteo, alternando momenti di gioia a delusioni profonde, ora dobbiamo metterci l’anima in pace: nella piena estate è prevista una grossa perturbazione che porterà tanta pioggia, vento e freddo proprio nei luoghi meta del nostro viaggio. Non son certo i presupposti migliori per iniziare un avventura di questo tipo. 

In effetti lasciamo la Sardegna con un bel sole ma dal nostro arrivo a Milano siamo subito accompagnati da una pioggerellina fina e costante, e da nuvoloni poco rassicuranti. Anche nel tragitto in automobile che dall’aeroporto milanese ci condurrà a Isolello non scorgiamo segnali positivi anzi, più ci avviciniamo alle montagne e più la pioggia si fa intensa. Arrivati in Valsesia il Monte Rosa è invisibile, nascosto dietro grosse nubi ma in compenso la compagnia è fantastica. Dopo aver condiviso una bella settimana nel Supramonte di Baunei siamo nuovamente con i nostri amici Giovanna, Alberto e Giorgio A. del CAI. Fortunatamente loro sono degli esperti in questo campo e riescono a diffonderci ottimismo ed allegria. In questi cinque giorni verremo ospitati da Giovanna, nella sua casa bellissima e calda, con spettacolari rifiniture in legno e fiori in ogni angolo. Come nella migliore usanza speleo-alpina, ci si riunisce a tavola in un pranzo Sardo-Emiliano di qualità e quantità elevatissima. Trascorriamo la sera tra le chiacchiere e una bella passeggiata in paese e quindi ci dirigiamo per la cena in un agriturismo tra le montagne dove degustiamo i piatti tipici piemontesi e pianifichiamo nel dettaglio la nostra strategia per affrontare l'ascensione.

Contiamo di procedere ogni giorno a piedi per favorire l’acclimatamento alla quota per poi ridiscendere e dormire più in basso. Così facendo, il giorno successivo possiamo utilizzare gli impianti per arrivare all'altezza raggiunta il giorno precedente senza soffrire il mal di montagna. Partendo da 1200 metri dobbiamo superare a piedi altri 3300 metri di dislivello per arrivare in vetta e contiamo di frazionare la salita nei tre giorni successivi. L’indomani prevediamo di portarci dai 1.200 metri di Alagna Valsesia a 2.900 metri di altitudine, visitare il rifugio Città di Vigevano per poi ridiscendere e pernottare nel rifugio Città di Mortara a 1950 metri. Il giorno successivo dal rifugio a 1.950 metri saliremo con gli impianti fino al Passo dei Salati a 2.980 metri, proseguiremo a piedi fino ai 3.600 metri del rifugio Gnifetti per poi ridiscendere e pernottare al rifugio Mantova a 3.400 metri. L’ultimo giorno tenteremo la vetta a 4.500 metri partendo la notte dai 3.400. Se tutto va bene, prima di ritornare in Sardegna, avremo ancora una giornata da trascorrere in Valsesia festeggiando il successo della nostra avventura. 

La mattina successiva la sveglia suona presto, dopo una veloce colazione ci concentriamo sullo zaino nel tentativo disperato di riuscire a far entrare tutto il necessario. Il mio sembra esplodere da un momento all’altro. Perdo 20 minuti cercando un ultimo spazio disponibile per far entrare la piccola batteria di riserva della macchina fotografica e credo proprio di aver superato il limite dei 12 chilogrammi che ci eravamo prefissati. Partiamo in macchina da Isolello per raggiungere Valsesia dove iniziamo il nostro cammino. Attraversiamo il paese con lo zaino in spalla e con il sorriso stampato sul volto. Usciamo dal paese e iniziamo un ripido sentiero ma dopo mezz’ora si ripresenta la pioggia e scompare immediatamente il nostro sorriso. Proviamo a procedere comunque coprendo gli zaini con le loro protezioni, saliamo ancora ma la pioggia si trasforma in un vero e proprio acquazzone ed ora arranchiamo fradici in salita cercando di non scivolare sui massi bagnati. A malincuore dobbiamo arrenderci all’evidenza, piove troppo, non possiamo proseguire. Ci fermiamo a ragionare sul da farsi: la resa totale o aspettare un miglioramento del tempo. 

Decidiamo di provare a guadagnare un po’ di quota attraverso la funivia in modo da attendere un eventuale finestra di bel tempo a 2000 metri così da non precluderci la possibilità di continuare a piedi la salita fino ai 2.200 metri come da programma. Prendiamo quindi l’impianto e saliamo ai 2000, piove ancora e fa più freddo ma siamo al riparo e cerchiamo di asciugare i vestiti utilizzando anche un asciuga mani ad aria calda fissato nel muro dei bagni dell’impianto di salita. Aspettiamo e nel mentre speriamo migliori il tempo, continuiamo a tenere alto il morale e l’entusiasmo anche se comincia a insinuarsi in noi la paura di dover abbandonare. Dopo circa un ora e mezza invece, il cielo si pulisce e smette di piovere, addirittura compare il sole e senza tentennamenti ripartiamo cercando di allinearci al programma. Ricominciamo a crederci. Per acclimatare dobbiamo salire e ridiscendere e quindi lasciamo il bagaglio superfluo al rifugio di Mortara, dove pernotteremo la sera, e quindi ci avviamo al trekking quasi scarichi. Se il meteo tiene a 2.900 ci prenderemo tutto il tempo possibile prima di riscendere al rifugio in modo da abituare il fisico alla nuova quota. 

Prendere la funivia dai 1.200 ai 2.000 si è rivelata la scelta migliore, il trekking che ci aspetta sale dolcemente ma ci occupa per 6 ore. Durante la salita, complice il rotolare di alcune pietre, scorgiamo dei meravigliosi stambecchi. Nel pomeriggio quando iniziamo la discesa, il sole scompare e lascia il posto nuovamente alla pioggia leggera. Quando arriviamo al rifugio siamo un po’ stanchi e infreddoliti ma contenti di non esserci arresi alla prima difficoltà. Ceniamo di buon umore e ci ripromettiamo di valutare il da farsi direttamente l’indomani, in base alle condizioni meteo. La mattina successiva mi sveglio presto, mi sento nuovamente in gran forma. Apro la finestra e con grande entusiasmo e sorpresa scopro che splende il sole in un bel cielo azzurro, addirittura fa quasi caldo. Facciamo colazione scalpitanti e con gli zaini pronti, appena possiamo prendiamo la funivia che dai 2000 metri ci condurrà in prossimità della quota più alta raggiunta il giorno precedente, ossia i 2.980 metri. Quando scendiamo dall’impianto noto con piacere che non soffro l’altezza, evidentemente il mio organismo per il momento reagisce bene. 

Facciamo sempre attenzione a non perdere tempo: dai 2.980 ai 3.600 il percorso è lungo, in salita e l’effetto quota potrebbe farsi sentire, inoltre il tempo non sembra tanto sicuro, quando il sole si oscura dietro una nuvola fa freddo e temiamo possa ricominciare a piovere. Proprio all’uscita della stazione degli impianti si ripresentano nuovamente gli stambecchi e anche questa volta il loro movimento mette in moto una caduta di pietre da un canalino. La caduta delle pietre la temo particolarmente, la reputo una delle peggiori insidie sia in grotta che in montagna. Mi era capitato in passato di attraversare le gole di Gorroppu con i mufloni che, centinaia di metri più in alto, facevano cadere le pietre nella nostra direzione e non vorrei dover ripetere quell’esperienza poco piacevole. La stazione degli impianti pullula di escursionisti, nella balconata esterna si sta svolgendo una mostra gastronomica con espositori provenienti da tutta la regione ma quando ci incamminiamo nel sentiero ci rendiamo conto di esser soli e aver lasciato tutta quella folla alle nostre spalle. 

Oltre il panorama mi sorprende non poco la presenza di così tante persone, mi manca un poco quel senso di solitudine della “mia” Sardegna. Il percorso, sempre in salita, si snoda lungo un sentiero costituito da poca terra, tanti massi e rocce instabili rese scivolose dalla umidità dell’aria. Qua e là compaiono i primi ghiacci e guardando in alto cominciamo a vedere grandi pendii bianchi confondersi con le nubi. Nel mentre che procediamo parliamo di quel terreno (Giorgio lo definisce “sfasciume”) e della sua netta differenza con il calcare calpestato nella settimana in Sardegna. Dopo aver guadagnato qualche centinaio di metri di dislivello il percorso diventa un misto di ghiaccio e sassi che ci fa rallentare e faticare ma nel complesso continuiamo a tenere un ottimo passo. Procedo con la macchina fotografica appesa al collo ed ogni angolo o breve sosta scatto fotografie. Vedo Vittorio davanti a me che filma e scatta foto, mi rendo conto che assomigliamo tremendamente a quei turisti cittadini che scattano foto ad ogni angolo delle città. La cosa mi fa ridere ma non mi vergogno per niente, anzi, aumento la frequenza degli scatti!. Siamo intorno ai 3200 metri e dobbiamo raggirare un costone su un sentiero largo circa un metro. 

Su un fianco rocce spoglie e dall’altra un piccolo salto verticale di una decina di metri che termina una pietraia infinita che scende verso valle in ripidissima inclinazione. Sul fianco verso la montagna troviamo una grossa corda fissa utilizzata per agevolare il passaggio quando il sentiero nel periodo invernale si ghiaccia completamente. Non ci sono particolari difficoltà, si procede benissimo in fila indiana anche senza l’ausilio della corda fissa. Superiamo quindi il costone su una cengia e attraversiamo un canale ghiacciato in diagonale fino a raggiungere sull’altro versante un terrazzo dove ci fermiamo a riposare e scattare qualche foto. Il tempo è ancora bello e siamo molto entusiasti, procede tutto benissimo, meglio di così non poteva andare. Mi sento felice. Nel mentre che si discute e si sistemano gli zaini sento ancora una volta rotolare delle pietre dalle pareti che avevamo appena superato. Ho la macchina fotografica al collo e in automatico la prendo sicuro di scattare una fotografia agli stambecchi che sicuramente staranno passando tra le pareti. 

In un istante, sollevato lo sguardo, vedo distintamente una sagoma umana precipitare dalla cengia che avevamo appena superato, cadere nel vuoto per diversi metri, battere violentemente su diverse sporgenze e precipitare ancora fino a scompare tra i massi. Non riesco a trattenere un urlo, abbiamo visto tutti, gridiamo, chiamiamo. È successo un incidente, abbiamo visto chiaramente, ci siamo solo noi. Nonostante le nostre grida dall'altra parte del canale si sente soltanto qualche ultimo sasso rotolare nella pietraia, nessuna voce, silenzio totale. Il cuore mi batte all’impazzata. Dei concitati istanti successivi ricordo Alberto chiamare, continuare a gridare, io mi tolgo lo zaino, Giovanna con il telefono in mano per allertare i soccorsi, poi ancora le urla di Vittorio e Adriano nel tentativo di stabilire un contatto. L’incidente è apparso immediatamente grave, molto grave. In tutto la persona è caduta di peso per trenta, forse quaranta metri più in basso su rocce nude.

Con Giorgio cerchiamo velocemente di organizzarci per avvicinarci con materiali da primo soccorso ma un secondo più tardi Alberto è già partito per raggiungere quell’uomo abbandonando il sentiero. Per raggiungerlo deve attraversare un tratto ghiacciato, non battuto e ripido per poi procedere in diagonale in un canale pietroso ed esposto che continua a muoversi verso il vuoto. Lascio Giorgio ad organizzare i materiali per il soccorso e parto all’inseguimento di Alberto: non voglio lasciarlo solo in quel terreno pericoloso. Dobbiamo raggiungere l’infortunato ma nello stesso tempo dobbiamo assicurarci di non precipitare anche noi trascinati dal movimento verso il basso della pietraia. Raggiungo Alberto nel momento in cui lui raggiunge il ferito e le paure diventano certezze: la situazione è disperata. È un uomo, sulla cinquantina, le ferite son profonde ed ha perso molto sangue, non sembra completamente cosciente. È rivolto sulle pietre a pancia in giù con gli arti in posizione innaturale. 

Gli slacciamo lo zaino e i primi bottoni della camicia. Mi si stringe la gola. Nonostante Alberto continui ininterrottamente a far coraggio al povero uomo ci scendono ad entrambi le lacrime. Senza dirci nulla eravamo concordi che la situazione era critica. Ad ogni movimento scivoliamo più in basso avvicinandoci pericolosamente ad un cambio di pendenza del terreno. Chiedo ad Alberto di mettersi al mio fianco, verso la montagna. Proprio in quel momento sento che scivoliamo tra le pietre e riesco a malapena a tenere fermo l'uomo ferito afferrandolo per la giacca. Nel mentre Giovanna ha già preso contatto con i soccorsi che contano di raggiungerci con l’elicottero della stazione piemontese. Adriano è rimasto a metà tra noi e Giovanna per mantenere un contatto e poterci scambiare informazioni e richieste. Nel mentre ci ha raggiunto anche Giorgio C. e Vittorio. Ora siamo in quattro e dobbiamo metterci tutti in sicurezza. 

In un istante decidiamo il da farsi, e non abbiamo scelta, le possibilità son solo due: sistemare il ferito e noi stessi o lasciarlo lì e spostarci al sicuro solo noi. Ci guardiamo negli occhi e rifiutiamo l’idea di abbandonare quella persona a se stessa. Ci disponiamo sui fianchi dell’uomo, uno a destra uno a sinistra, uno ai piedi e uno alla testa. L’esperienza nel soccorso alpino e le lezioni in sede han fatto si che servissero poche parole per procedere: chi reggeva allineata la testa ha comandato la manovra e con un movimento fluido abbiamo adagiato il ferito in una posizione sicura. Successivamente abbiamo preso il telo termico e l’abbiamo coperto. I suoi occhi sembravano cercare i nostri e le parole di conforto nascondevano il dolore per quell’uomo che in quei momenti sentivamo essere nostro amico, come se ci conoscessimo da sempre, eravamo tutti sconvolti. Alberto gli teneva la mano e gli parlava, io Vittorio e Giorgio con gli sguardi, senza dirci parole, ci siamo capiti: non potevamo far altro. Il tempo peggiorava, era comparsa una nebbia fitta e un vento gelido. 

Dal fondo valle ci è sembrato di sentire il motore dell’elicottero così ci prepariamo a liberare il luogo e a proteggerci da una possibile caduta dei massi nel momento in cui le pale del mezzo avrebbero creato turbolenza sulla pietraia. Vittorio ed io ci incamminiamo verso Adriano, Giovanna e Giorgio A. , Alberto terrà la mano dell’uomo fino all’ultimo e Giorgio C. farà i segnali all’elicottero. Pochi minuti prima di essere raggiunti dai soccorsi Alberto tra le lacrime ci comunica che la sofferenza di quell’anima è finita, gli ha tenuto la mano fino all’ultimo momento. Quando arriva l’elicottero nell’esile piazzola c’è solo Giorgio C. , noi siamo oramai tutti dall’altro versante del canale. L’uomo è morto. Osserviamo silenziosi il recupero dei soccorritori, senza dire altre parole. La situazione è surreale, non avrei mai immaginato un evento del genere, lontano da casa, in luoghi che non conosco mi sentivo perso e svuotato da tutte le energie. 

La felicità di trovarsi tra amici in una grande montagna era stata spazzata via dalla tragedia. Prima che si diffondesse la notizia, sapendo che a casa le nostre famiglie erano anch’esse sintonizzate sul Monte Rosa, abbiamo deciso di chiamare e avvisare che stavamo tutti bene pur sapendo che da li in poi questo avrebbe messo tutti in grande angoscia. Ho chiamato Betty, mia moglie, mi ha risposto allegra. Non so come ho fatto a descrivere quello che era accaduto, cercavo di non farmi sentire particolarmente scosso, non so se ci son riuscito. Nel mentre siamo stati contattati dalla stazione dei Carabinieri per invitarci a raggiungerli per la deposizione necessaria per ricostruire l’evento. Ci siamo consultati, avevamo ancora voglia di continuare? La salita alla montagna aveva ora un altro significato, aveva perso di entusiasmo e non eravamo più così convinti di cosa era meglio fare. Forse per cercare di assorbire le sensazioni, per pensare altro, per cercare la normalità persa abbiamo convenuto di andare avanti. 

Giovanna ha richiamato i militari ed ha spiegato loro che ridiscendere a valle avrebbe segnato la fine del nostro programma, i Carabinieri si son dimostrati comprensivi e hanno rimandato l’incontro alla nostra discesa. Proseguiamo quindi. Ognuno ha ripreso il proprio zaino, nessuna parola. Dall’incidente erano trascorse forse due ore, ci siamo dimenticati delle fatiche della salita e della difficoltà della quota. Avevamo dato tanto in termini fisici e mentalmente eravamo distrutti. Inutile dire che nel silenzio ognuno di noi cercava di darsi una spiegazione su come poteva essere accaduto, un escursionista da solo in montagna, un sentiero che ci era sembrato semplice e noi li, solo noi. Quando arriviamo in gran ritardo al rifugio dei 3400 non abbiamo più tempo ne energie per salire ai 3600 e ridiscendere come prevedeva il nostro programma. La sala è affollatissima, i presenti hanno già mangiato e la notizia dell’incidente si è già diffusa. 

Qualcuno ci chiede informazioni ma nessuno di noi ha voglia di parlare, è come riaprire una ferita all’animo non ancora guarita. Abbandoniamo gli zaini in un corridoio e silenziosi guadagniamo un tavolo nell’angolo della sala. I proprietari ci offrono quello che è rimasto: un minestrone di verdure. È caldo, va benissimo. Una volta seduto, dopo aver mangiato, sento che scarico le tensioni e mi rendo conto che non siamo proprio in forma, anche i nostri visi son segnati da quella dura lezione della montagna. Mi capita di guardare i miei compagni e scoprirli con lo sguardo perso nel vuoto, ognuno dentro se sta cercando il senso degli eventi. Esco nella balconata esterna, è sera inoltrata, alla luce del sole estivo si può stare con una semplice felpa, quando passa una nuvola in pochi secondi devo correre dentro a prendere la giacca. In compenso siamo rimasti in quota più del previsto, ci siamo mossi, abbiamo faticato e tutto sommato ci siamo acclimatati. Prendiamo la piccola camera dove dormiremo in sette e dato che non ci stanno tutti gli zaini lasceremo buona parte delle attrezzature nell’andito. 

Non so chi tra noi sia riuscito a dormire, tra la poca aria viziata della camera ed i pensieri in mente, ho trascorso la notte rigirandomi nel sacco letto disturbando certamente anche i miei compagni. Quando ci alziamo è ancora notte. Raggiungiamo la sala e facciamo colazione tra una miriade di escursionisti, sicuramente non saremo i soli ad incamminarci verso la vetta. Oltretutto a 3.600 metri, 200 metri sopra di noi, c’è l'altro rifugio, più grande, anch’esso zeppo di escursionisti con la stessa nostra meta. Non sono abituato a trovare la folla in montagna, non mi piace, ma seguo anch’io il programma e mi dimentico di chi mi circonda. Quando indossiamo gli imbraghi ed i ramponi, impugniamo la piccozza e ci leghiamo in cordata ci sentiamo nuovamente bene, concentrati sull’obbiettivo. Il tempo è buono, non c'è vento e non fa tanto freddo per essere ancora in piena notte a 3.200 metri. Quando ci incamminiamo è buio e il ghiaccio splende alla luce delle nostre lampade frontali. 

L’altezza si fa sentire, più saliamo e più è evidente che serve più fiato per muoversi. Anche i piccoli gesti hanno un peso, sollevare la macchina fotografica per fare una foto è faticoso, fermarsi e ripartire è molto faticoso. Anche bere tre sorsi di integratore dal camel bag è un azione da valutare, nel bere infatti non si respira così ogni volta che devo mandare giù un po’ di liquidi mi ritrovo con la necessità di recuperare il fiatone. Lo spettacolo dell’alba è magnifico, son senza parole. Quando arriva il sole illumina le montagne, il ghiaccio è di un bianco intenso e il contrasto con il cielo azzurro lo rende ancor più abbagliante. Sento che mi sto innamorando di quei luoghi. La lunga salita si fa sentire sempre più, le soste aumentano di frequenza per seguire i ritmi della cordata, la fatica c’è, ma sto bene. Fisicamente molto bene, più di quanto avrei mai sperato. Quando guardo verso il basso vedo un fiume di persone salire, alcuni con gli sci, altri in cordata ma alcuni sono slegati nonostante nella salita si sia reso necessario superare diversi crepacci. Mi ritorna in mente l'incidente del giorno precedente e non giustifico questa loro superficialità nell'affrontare la salita. 

Dopo aver fatto le foto di rito, alle 10.30 del mattino iniziamo la discesa dal Colle Gnifetti a 4.500 metri di quota dove, poco distante, alcuni giorni dopo perderanno la vita degli alpinisti per il distacco di una balconata su una cresta. Scendiamo veloci, più scendiamo di quota e più riprendiamo fiato. Non sento più fatica ed ho caldo, mi tolgo la giacca ed il berretto rimediando una scottatura in testa che mi genera un lieve mal di testa. Al rifugio Mantova ci tratteniamo il tempo necessario per rivestirci e assemblare lo zaino, il tempo si fa brutto e ricomincia leggermente a piovere. Come promesso, ci incontriamo al Passo dei Salati con i Carabinieri con i quali ricostruiamo l'incidente poi continuiamo la discesa utilizzando gli impianti e la sera siamo a casa. Prima di partire avevo immaginato una gran bella festa per la nostra impresa ma ora tra la stanchezza della salita e il triste ricordo dell'incidente ci accontentiamo di una pizza ad Alagna. La notte, nel caldo letto della casa di Giovanna, mi lascio cadere in un sonno pesante, fitto di immagini e ricordi. Mi alzo per la sete, bevo e riprendo sonno immediatamente. 

La mattina seguente, a mente riposata, mi rendo conto della dura lezione a cui abbiamo assistito. Usciamo a fare spesa e organizziamo una grigliata in giardino, nel pomeriggio ci riporteremo all'aeroporto per rientrare in Sardegna. Ancora oggi mi chiedo cosa possa aver sbagliato quell'uomo, cosa possa essere veramente accaduto per cadere da quel punto. Ma soprattutto penso che anche noi siamo passati in quella cengia larga un metro, ben più larga e sicura di tanti passaggi fatti in Sardegna. Dov'è il limite tra la prudenza, il naturale rischio della montagna e l'imprevedibilità degli eventi? Quando andiamo per le montagne siamo coscienti di cosa mettiamo in gioco o pensiamo sempre che a noi non possa mai capitare un incidente? Chi utilizza le corde conosce anche le manovre di soccorso? sappiamo tutti portare a terra un compagno? Personalmente mi son dato delle risposte, ognuno tragga le proprie conclusioni da questa storia. 

"La montagna, come un miraggio ci ha attratto, con la morte ci ha colpito duramente 
ed alla fine si è concessa in tutto il suo splendore. 
Questa è la montagna, spietata e dolce allo stesso tempo. 
La montagna non si fa conquistare, è lei che decide se conquistarti o punirti. 
La montagna è scuola di vita, sempre! 
A Paolo, sconosciuto compagno di viaggio che alla montagna ha donato la vita."
(Vittorio Chessa)